L’Hotel Raphael, dimora de Charme e De Luxe a due passi da Piazza Navona come recita il sito internet, è lì, nel centro di una citta, Roma, destinata a un’inesorabile decadenza, dove i “gabbiani frugano nei sacchi neri”. L’albergo accoglie i clienti, offre loro relax, mostre, propone percorsi alimentari vegetariani e biologici al sapore di bouganvillae, qualificandosi come indiscutibile punto di riferimento nel mondo dell’eccellenza a cinque stelle. Sulla pagina web nessun cenno o ironica menzione viene fatta alla sua pensilina color bianco crema, che il 30 aprile del 1993 decretò la fine della Repubblica Italiana. D’altro canto, le ragioni che indussero Bettino Craxi e il suo ghigno borioso ad attraversarla frettolosamente e adeguatamente protetto dalla rabbia di un manipoli di indignati, non erano particolarmente nobili: nascevano dal noto desiderio del leader socialista di affermare violentemente il proprio ego, stavolta mediante l’inconsueta, e per lui scomoda forma, di un memoriale difensivo da affidare a un’intervista concessa all’amico Giuliano Ferrara. Fu l’ultimo, disperato tentativo, di rianimare una carriera politica di enorme successo ma ormai compromessa, che muovendo i primi passi dall’inaspettata vittoria congressuale conquistata in un altro albergo della capitale, il mitologico Midas, trovò nei muscoli esibiti nell’adrenalinica notte di Sigonella il suo punto più alto, fino a spegnersi malinconicamente sulle rive dell’esilio tunisino.
Nessuna generazione, nata e cresciuta a ridosso di quel lancio di monete, ha mai percepito gli ideali e i valori dell’Assemblea Costituente come suo patrimonio, né si è illusa di vivere in una democrazia in grado di garantire progresso e prosperità collettiva. All’epoca delle intemperanze del Raphael ruggiva spedita la locomotiva di Tangentopoli, che l’impietoso giudizio della storia avrebbe poi smascherato come la più esile tra le presunte rivoluzioni del novecento. La farsa boccaccesca degli avvisi di garanzia, sconfinata regolarmente nel tragico utilizzo della carcerazione preventiva a scopi intimidatori e punitivi, accese enormi speranze di cambiamento negli italiani. Nonostante la copertura mediatica degna di un conclave, le vicende giudiziarie non produssero alcun risultato concreto nella lotta al malcostume. Peculato e corruzione, inizialmente amministrate con discrezione e pragmatismo paolino dalla DC, finirono nelle più scurrili mani dei socialisti e degli altri partiti (ancora oggi occupano stabilmente le prime pagine dei giornali).
Solo le vittorie elettorali di un caro amico di Benedetto Craxi, il fedele Silvio Berlusconi, hanno saputo smuovere le sonnolenti coscienze politiche dell’ultimo ventennio. Così, simili a bimbi, abbiamo preso a scrutarci con sospetto l’uno con l’altro, dividendoci tra omertosi sostenitori e manifesti avversari di questo imprenditore di gran profitto, come se il gradimento o il fastidio provocato dall’estetica del cafone di Arcore fosse l’ultimo, estremo ideale, in grado di rianimare la partecipazione politica.
Neppure il declino del Cavaliere è però servito ad arginare l’emorragia di credibilità dell’istituzione statuale, iniziata con la busta da sette milioni finita nelle tasche di Mariuolo Chiesa. Tramontate le tradizionali posizioni ideologiche nate dopo la Costituzione, la decadenza dei partiti ha spedito in pensione la guareschiana contrapposizione destra-sinistra. Il recente entusiasmo montato intorno ai movimenti del rinnovamento tout-court si è presto spento, quando la spinosa questione è stata quella di misurarsi con il governo (Ciao Virginia!). Può un individuo oggi riflettere sulle categorie politiche che la storia ci ha tramandato? Voto, rappresentanza, divisione dei poteri, hanno ancora un significato nelle nostre vite?
Di fronte alla secolarizzazione del patto sociale, ciò che manca nel nostro immaginario di protagonisti del ventunesimo secolo è l’opzione dell’abbandono delle istituzioni, quella che Max Stirner, vita da fallito e pessima reputazione da morto, immaginava come una collettiva uscita di scena dalle speranze riposte nella cittadinanza attiva. Solo l’associazione utilitaristica, priva di ogni elemento ideologico, era per il filosofo tedesco l’alternativa al vicolo cieco della società politica, dove l’uomo giace soggiogato dalla religione di Dio e della Specie. Scopo reale dell’umano consorzio è quello di camminare verso un futuro da scegliere secondo il proprio gusto o talento, liberi dai condizionamenti della morale, della scienza, del materialismo e di ogni costrizione della propria unicità.
Per quanto deluso e frustrato dalla mediocrità del legislatore l’uomo moderno non riesce ancora a immaginarsi senza la mediazione della delega politica, tradendo la pavidità che duecento anni di dittatura borghese e liberista hanno marchiato nella sua coscienza. Solo la consapevolezza di chi siamo realmente può restituirci la corretta dimensione della relazione con l’altro, ossia la necessità di cercare in quest’incontro ciò che più ci è utile per essere felici, rinunciando alle fatiche dell’etica che gettano l’individuo nello sconforto.
Il sogno della Repubblica del Raphael, quella che Bettino Craxi contava di instaurare nel nostro paese nel nome di Garibaldi e Proudhon non crollò con lo sventolio di banconote in faccia al segretario socialista, ma il giorno prima, il 29 aprile 1992, quando Marco Pannella pronunciò di fronte alla Camera dei deputati “un intervento venuto dal futuro, che spiega non solo le radici profonde dello scontro in atto ma anche degli scontri del ventennio avvenire” (Guido Vitiello, Il Foglio). Accarezzando con la consueta umanità una classe politica destinata alla forca, la stessa che dopo aver saccheggiato il paese si era arroccata dietro l’infantile difesa del fumus persecutionis, Pannella esortò gli accusati ad assumersi le colpe della fine: partiti, giudici, forze dell’ordine ed enti locali, tutti insieme colpevoli di aver scelto la ragion di stato e ignorato il diritto e la giustizia.