Pippo Delbono mi ricorda un po’ Sandro Penna. Come il poeta perugino, anche questo regista dal buffo accento, di cui ignoravo l’esistenza prima di imbattermi in Sangue, ci dice apertamente chi è e dove va, a spasso nel mondo, attraversando il dolore, la sofferenza, il bene e il male, in fondo ostaggio di un amore contagioso per la vita che illumina ogni momento in cui l’esistenza umana che lo circonda prende forma, si realizza e inesorabilmente finisce. Una passione così travolgente e spontanea quella di Pippo, inconsapevole e corroborata da una fede disinteressata nell’uomo, da rendere poetica una successione di immagini e situazioni altrimenti oscena: dalla testimonianza, attraverso una telecamera usata in modo infantile e amatoriale, dell’amore filiale, della religione e della morte che si fa cadavere, fino alla vicenda personale di Giovanni Senzani, coautore del film, un terrorista che la storia ha condannato e che neanche la purezza dello sguardo di Delbono riesce a restituire redento agli occhi dello spettatore.
L’Italia raccontata in Sangue è un paese antropologicamente estinto, in cui la tragedia del cancro che uccide diventa momento e occasione di verità e profondissima tenerezza, la mano viva che stringe e accarezza fino quasi a consumarla la mano ormai morta, e non stigma o colpa da nascondere, ignorando come la pena, la malattia, il senso di inadeguatezza o la paura siano parole ed emozioni pubblicamente indicibili. E così anche la banalità della commozione che si prova di fronte a una nonna stremata, che parla per l’ultima volta con un nipotino pieno di vita, o la rabbia populista e la cupezza che affiorano osservando quella bellissima città dell’Abruzzo distrutta dal terremoto e tradita dall’uomo, sono lecite nel cinema di Delbono, approdo sicuro per ripararsi dall’assedio del conformismo e della normalità.
A far da contraltare, in una casuale dialettica degli opposti, alla bellezza con cui il regista ci racconta la propria vita, compaiono i piccoli e feroci occhi di Senzani, il suo corpo minuto che stride con l’arroganza dell’armatura emotiva e intellettuale attraverso cui l’ex leader del Partito Guerriglia si è fatto forza durante gli anni della detenzione e della tortura, sopravvivendo al peso e al rimorso di aver giustiziato un uomo senza alcuna colpa. Eppure il film dimostra come sia possibile amare anche lui, le sue fragilità e miserie, e che forse solo al di fuori delle convenzioni sociali, della giustizia e della morale, esiste la salvezza dell’individuo attraverso gli altri, qualche cosa che si avvicina all’amicizia, perché se la pietà deve essere indotta ed evocata la comprensione sgorga invece libera direttamente dal cuore.
Mentre osservo la proiezione sono immobile, a volte i “pezzi” del cuore dell’autore mi arrivano così intensamente che il mio respiro si fa pesante e angosciato, così sorrido nervosamente, ma vorrei accarezzare qualcuno o qualcosa. Questo è Sangue.