La tormentata storia della repubblica italiana passa anche attraverso tragiche violenze e molte morti: di serie A, di serie B, perfino di serie Z. Alcune, nonostante le drammatiche conseguenze, hanno contribuito a cementare le famiglie e le comunità colpite intorno all’appartenenza a un idea o nella ricerca della comprensione e della giustizia, consentendo a parenti e amici di dare senso a un’esistenza altrimenti ostaggio della rabbia e del dolore. Penso a Carla Verbano, a Ilaria Cucchi, a quanti hanno visto le persone amate andarsene perché la sicurezza sul lavoro era una voce ingombrante nel bilancio di un’azienda, una spesa da tagliare. Altri cadaveri sono stati rimossi e annegati nell’oblio, troppo l’orrore che suscitavano, troppe grandi e compromettenti le evidenti responsabilità da smascherare: meglio la finta pietà verso una pletora di “Associazioni familiari delle vittime” da consolare con qualche saltuario risarcimento e illudere con un po’ di attenzione mediatica, sventolando la promessa di una verità giudiziaria sempre più vicina ma a cui mai si arriva. Ci sono lutti che attraverso l’effetto deformante della televisione commuovono e uniscono un intero popolo, facendo dimenticare che un soldato a Nassiria è in guerra e il nemico spara, mentre le 153 persone decedute in carcere nel solo 2013 non sembrano interessare a molti.
Poi c’è Giovanni Lattanzio, a cui è toccato il destino più atroce tra tutti, più infame anche di quella pallottola scagliata dentro la sua palpebra sinistra da uno studente coetaneo, un giovane che Giovanni non conosceva, con cui aveva discusso, lamentandosi per un pestone ricevuto sull’autobus affollato: quello di essere esiliato dalla storia, di non aver lasciato traccia nella memoria collettiva, di non poter essere ricordato e così sopravvivere alla follia che lo ha spazzato via dal mondo. Un pugno di articoli su L’Unità nei giorni del delitto e l’Istituto Tecnico che frequentava intitolato con il suo nome: così si è alleggerita la nostra coscienza per non essere stati in grado di spiegare a una povera famiglia perché il loro figlio e fratello è vissuto così poco e morto per meno, per non aver dato alla madre e al padre un colpevole da maledire o perdonare.
In questi mesi ho tentato di raccogliere la testimonianza dei pochi che avrebbero potuto dire qualcosa in merito a questo dramma, di chi lo attendeva a scuola la terribile mattina del 21 settembre 1978, di chi doveva avere la sensibilità e la cura di spiegare quell’altrimenti incomprensibile foto attaccata a un lampione di Via Prenestina. Ma la mia richiesta è rimasta inascoltata, e così alla fine non ho potuto far altro che immaginare di recarmi direttamente sulle sponde del Lete a parlare con Giovanni.
Giovanni, più di trentacinque anni fa scendevi alla fermata dell’autobus per andare a scuola e un ragazzo ti sparava. Perché?
Non l’ho mai capito! L’unica cosa di cui sono certo è che la reazione fu spropositata rispetto alla futilità dell’alterco, ricordo l’impressionante facilità con cui fu esploso quel colpo, senza che alcuna inibizione fosse in grado di fermare chi mi stava di fronte. Walter Veltroni scrisse che se ne era andato un ragazzo di borgata: ecco, credo sia questa la ragione della mia morte, né il mio assassino né io siamo riusciti a essere altro, ma solo il prodotto di un luogo marginale, di un mondo in cui il valore della vita non è mai arrivato e neppure la bellezza con cui si manifesta.
Il tuo omicida non è mai stato individuato. C’è qualcosa che vorresti dirgli?
A lui vorrei dedicare alcuni versi della poesia che Jacques Prévert scrisse per Los Olivados, i protagonisti de “I figli della violenza”, il film di Luis Buñuel:
Los olvidados
fanciulli amanti e male amati
assassini adolescenti
assassinati
Com’era Roma nel 1978?
Un gran casino, non c’erano zingari e immigrati ma le signore dovevano tenere molte strette le loro borsette, chi non aveva una pelliccia da regalare alla propria donna la strappava a quella di un altro, le macchine era più semplice rubarle che comprarle. E poi fischiavano pallottole ovunque.
Lotta Continua scrisse che il tuo era un delitto “politico”.
Sono d’accordo! Al pensiero politico, al suo studio ed elaborazione e soprattutto a chiunque abbia ricevuto in delega la volontà generale e il mandato per rappresentarla spetta il compito di realizzare la migliore convivenza tra gli individui e stimolare la loro cooperazione, garantendo tutto ciò che è materialmente e spiritualmente necessario per farli sentire parte attiva del patto sociale. La violenza e i conflitti che normalmente vengono derubricati a problemi o questioni di “ordine pubblico” sono invece un atto di accusa diretto al cuore di quei principi della società civile e del diritto positivo che la politica degli ultimi cinquant’anni si è affrettata a classificare variamente: progresso, libertà, democrazia. Il mio non fu comunque un omicidio fascista, questo no.
Concludendo?
Certo me sarebbe piaciuto vede’ come andava a finì sta vita…
Ciao Giovanni.
Ciao